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Il Blog di Marco Piazza

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12 febbraio 2014

Esterovestizione: società a base familiare e rischio di stabile organizzazione

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Spostare la produzione all’estero, mantenendo lo stile   di governo “padronale” tipico  della piccola e media impresa italiana può comportare seri rischi fiscali. La giurisprudenza tende infatti ad  applicare il concetto di “esterovestizione” non solo alle società di mera gestione di di attività patrimoniali o finanziarie (immobili, marchi, brevetti, partecipazioni, finanziamenti, ecc.) ma anche a quelle attraverso cui soggetti residenti in Italia detengono all’estero reali stabilimenti produttivi.L’approccio adottato è assai poco tecnico, ma  molto “sostanzialistico”.Esaminiamo, ad esempio, la sentenza n. 32091 del 24 luglio 2013 (ud 21 febbraio 2013) della Cassazione Penale, Sez. III (Pres. Alfredo  Lombardi – Est. Elisabetta Rosi) che ha confermato   un  decreto di sequestro preventivo di beni immobili disposto dal tribunale di Arezzo a carico del legale rappresentante  di una società italiana controllante di una società tunisina.L’interessato era accusato di non aver presentato, in Italia,  la dichiarazione dei redditi della società tunisina, giudicata dall’Agenzia delle Entrate, “estrovestita”.Dalla motivazione si desume che l’unità produttiva tunisina realizzava gioielli  diretti  al  mercato  americano,  pagava salari e stipendi ai dipendenti locali ed era  affidata alla gestione di  un  preposto  tunisino.

Società controllata o stabile organizzazione.

La Cassazione, dopo aver precisato che l’esterovestizione può sussistere indipendentemente   dal   carattere   reale   o    fittizio    dell’attività industriale o commerciale svolta nel paese estero in cui  si   dichiara   la residenza della società, conclude (paragrafo 9)  che il Tribunale di Arezzo « ha  ampiamente  motivato  in  ordine all’attività  direttiva  e  finanziaria  svolta  nella  sede  aretina  della controllante,  i   cui   amministratori  e  dipendenti   sono   coloro   che tirano  le fila delle scelte produttive e finanziarie  della   società   che così si palesa come esterovestita».

I difensori devono aver cercato di affermando che la  società tunisina  sarebbe stata  una  stabile  organizzazione  estera  rispetto   al gruppo   societario   aretino,  ai  sensi  dell’art.   162   T.U.I.R., forse allo scopo di evidenziare che l’accertamento era stato notificato al soggetto sbagliato (alla società tunisina e non a quella italiana).

Comunque sia, i giudici concludono che «l’elemento  tecnico   che dovrebbe far individuare proprio nella  società  tunisina   quella   stabile organizzazione idonea  a  localizzare  nel  paese   magrebino   il   reddito dell’impresa multinazionale,  sottraendolo   lecitamente   alla   tassazione italiana,  costituito dalla  piena  autonomia   contabile,   finanziaria   e decisionale, appare del tutto inesistente emergendo  la  totale    eteronomia della  gestione  estera   rispetto    al    centro   decisionale   italiano (…)».

Delle due una:

–       o i giudici della sezione penale credono veramente che una società italiana possa lecitamente sottrarre a tassazione in Italia i redditi prodotti attraverso una stabile organizzazione all’estero, e allora vuol dire che sono del tutto a digiuno dei principi generali che ispirano la fiscalità internazionale: sia per norma interna sia per effetto delle convenzioni contro le doppie imposizioni, i redditi d’impresa prodotti all’estero sono sempre soggetti alla cosiddetta “tassazione concorrente” (tassazione in Italia con il credito d’imposta per le imposte pagate all’estero);

–       oppure non hanno ben chiara la distinzione fra società e stabile organizzazione e quindi ritengono che il termine “stabile organizzazione” sia utilizzabile anche per individuare un organismo all’estero che oltre ad avere piena  autonomia   contabile,   finanziaria   e decisionale sia dotato di autonoma soggettività giuridica, perché solo a queste condizioni sarebbe soggetto ad imposte in Italia solo per i redditi prodotti nel territorio nello Stato.

Probabilmente l’accertamento era motivato con riferimenti più specifici alle norme, riferimenti che evidentemente si sono persi nelle varie fasi del procedimento penale. L’Ufficio deve aver semplicemente presunto che la società tunisina fosse residente in Italia, in quanto, di fatto, la sua direzione effettiva era localizzata in Italia e che avesse una stabile organizzazione in Tunisia i cui redditi dovevano essere tassati in Italia.

Certo è, al di là degli aspetti tecnici della motivazione della sentenza, che gli elementi indiziari riguardo alla localizzazione del centro decisionale della società estera, erano nel caso di specie piuttosto rilevanti. La sentenza richiama  «i  numerosi   documenti   (trovati nella sede  aretina)  indirizzati   alla   clientela  della  controllata  in ordine al fixing del metalli prezioso,  alla  corrispondenza con  i  clienti della partecipata  tunisina,  agli  strumenti  di  pagamento   afferenti  ai conti correnti  bancari  della  controllata, persino ai timbri e alla  carta intestata della  società  estera. Per non parlare della gestione finanziaria (conti correnti in  valuta  estera accesi  presso  le  filiali  aretine,  la delega  ad  operare   sui  conti   tunisini,   i   rapporti   di   reciproca compensazione, ecc: […] del tutto dipendente  dal board della società  capogruppo».

Il rischio dell’organizzazione “padronale”

Alla fine, si legge nella sentenza un giudizio di valore, riferito al caso di specie, ma che suona come una massima (quasi un pregiudizio) di portata generale: «E’ davvero problematico parlare di  stabile organizzazione  di [ma si voleva dire società estere controllata da, nda.] un gruppo multinazionale (…)  quando in  realtà   la    controllante    italiana   e   la   controllata    estera risultano  stabilmente dirette da un ristretto gruppo a base familiare».

Qui, la Cassazione coglie l’essenza di un problema reale e diffuso. I piccoli e medi imprenditori italiani (di norma famiglie) difficilmente riescono, quando decidono di produrre all’estero, a spogliarsi della loro tipica tenenza al controllo totale e accentrato dei loro affari. Non sono disposti ad affidare la direzione della società estera a persone dotate di effettivi poteri gestionali e delle corrispondenti responsabilità. Persone che dovrebbero avere essere stesse le qualità di un imprenditore e non avere funzioni meramente esecutive. Accade così che, al di là della veste formale della controllata estera, questa risulti diretta, nei minimi dettagli quotidiani, dal quartier generale della controllante italiana.

Come risulta da consolidata giurisprudenza anche penale [di recente, la Sentenza n. 7080 del 23 febbraio 2012 (ud 24 gennaio 2012) della Cassazione Penale, Sez. III] e come precisa lo stesso commentario OCSE – la  valutazione  della “sede di direzione effettiva”  deve  essere   sempre   condotta   in un’ottica  di   prevalenza  della  sostanza  sulla   forma e quindi occorre individuare   il   luogo   da   cui    effettivamente provengono  gli  impulsi  volitivi inerenti   l’attività   societaria,  cioè il  luogo in cui si  esplicano  la  direzione  e  il   controllo   dell’attività.

Il rischio è che il concetto di “direzione effettiva” venga dilatato al punto di estenderlo alla “direzione e coordinamento” di cui all’articolo 2497 del codice civile che la controllante esercita nei confronti delle controllate.

E’ quanto giustamente viene messo in evidenza nel decreto del tribunale  di Pistoia del 17 giugno 2010 poi annuallato, per altri motivi  dalla Cassazione penale Sez. III, Sent.  n. 8982, dell’ 8 marzo 2011 (ud. 27 gennaio 2011) – il quale dopo aver, giustamente evidenziato che nell’individuare la “sede della direzione effettiva” della società “si deve far (…)  il luogo di assunzione delle decisioni chiave per la vita della società” –  ha precisato che “qualora poi (…) si sia in presenza del fenomeno dei gruppi societari, la questione è più complessa perché, come è ovvio, il potere gestorio di ciascuna controllata è sempre condizionato dall’attività di direzione, controllo e coordinamento della società capogruppo. In questo caso la sede della direzione effettiva non potrà essere quella in cui si assumono le decisioni strategiche e si definisce l’assetto organizzativo del gruppo di imprese (sempre coincidente con la sede della società capogruppo), bensì quella dove vengono assunte le decisioni sulla gestione e direzione quotidiana della società partecipata (sottolineato nel testo del decreto, nda). Debbono quindi essere analizzate tutte le attività ordinarie caratterizzate da una certa continuità come, ad esempio, l’attività di organizzazione e controllo dei processi e dei fattori produttivi, la gestione del personale, le attività di relazione con i terzi, la gestione finanziaria».

In pratica, se, come è stato riscontrato nel caso oggetto della sentenza di Cassazione in commento, nella sede della controllante si rinvengono documenti che dimostrano come la gestione quotidiana della società estera sia diretta dall’Italia, non conta che la società estera abbia un’effettiva attività produttiva o commerciale, sia dotata di impianti, personale e risulti titolare di rapporti giuridici con clienti e fornitori locali o esteri, che vi siano persone in loco che svolgono funzioni di coordinamento della locale organizzazione, ma assume prevalenza il fatto che queste persone hanno ruoli meramente esecutivi, anche nella gestione quotidiana, e non autentici poteri decisionali.

E’ molto probabile che nell’imprenditore italiano manchi la consapevolezza che un comportamento che giudica assolutamente normale possa avere risvolti penali.

L’omessa dichiarazione è sanzionata, dall’articolo 5 della legge 74 del 2000, quando l’ammontare dell’Ires evasa supera trentamila euro (77.468,53 euro per le dichiarazioni omesse fino al 17 settembre 2011) . Al reato è associata dal 2007, la confisca per equivalente dei beni di chi l’ha commesso (articolo 1 comma 143 della legge n. 244 del 2007). I termini d’accertamento (che normalmente scadono entro il quinto anno successivo a quello in cui è stata omessa la dichiarazione) sono raddoppiati (articolo 43, terzo comma del Dpr. 600/73).

Il soggetto destinato a subire la confisca per equivalente è individuato nell’ “amministratore di fatto” italiano della società estera, che spesso coincide con il rappresentante legale della controllante italiana (Cassazione n. 7080 del 2012, cit. e 20678 del 29 maggio 2012 (ud 12 aprile 2012) – della Cassazione Penale, Sez. III)

L’amministratore di fatto

La giurisprudenza prevalente ha colpito società estere che fruivano, nello Stato in cui erano costituite di particolari regimi di esenzione, anche temporanea, dalle imposte (Tunisia e portogallo), ma anche in Stati che non prevedevano alcuna agevolazione (Romania).

Il riconoscimento dei costi ai fini penali.

Una notizia buona, almeno in campo penale, è che sempre in applicazione del principio della prevalenza della sostanza sulla forma , i giudici tendono a riconoscere ai fini del calcolo della soglia di punibilità i costi sostenuti dalla stabile organizzazione all’estero anche se non risultano da una contabilità tenuta in Italia. Nella sentenza n. 8982 del 2011 citata, si legge: «Erroneamente, però, il Tribunale ha ritenuto che, ai fini del calcolo dell’imposta evasa, debba tenersi conto solo degli elementi positivi di reddito. E’ pacifico che, ai fini della integrazione del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, punito solo ove abbia determinato una evasione di imposta pari a Euro 77,468,53, per imposta evasa deve intendersi l’intera imposta dovuta, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio fiscalmente detraibili, in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento tributario” (cfr. Cass. pen. sez. 3^ n. 21213 del 26.2.2008)».  Nello stesso senso, la sentenza n. 20678 del 2012 cit., secondo cui «è pacifico che il reato di cui al D.Lgs. n.  74  del  2000,  art.  5,  è punito solo ove l’omissione abbia determinato una evasione di  imposta  pari a  Euro  77,468,53,  e che per imposta   evasa   deve   intendersi  l’intera imposta   dovuta,  da  determinarsi   sulla   base   della  contrapposizione tra   ricavi   e   costi    d’esercizio    fiscalmente  detraibili,  in  una prospettiva di prevalenza dei dato fattuale  reale rispetto  ai  criteri  di natura  meramente  formale  che   caratterizzano  l’ordinamento  tributario” Sezione 3 n. 21213 del 26/02/2008 Ud. (dep. 28/05/2008)  Rv.  239983;  Cass. pen. sez. 3^ n. 21213 del 26.2.2008». Anche se poi non ha ritenuto sindacabile, in sede di legittimità, il contrario comportamento del tribunale.

Soluzioni

Nulla impedisce che il consiglio d’amministrazione della società controllata sia prevalentemente composto da soggetti residenti in Italia. Ciò che conta è che le decisioni strategiche siano prese esclusivamente nel corso di riunioni effettivamente tenute in loco e che la gestione ordinaria della società sia affidata a dirigenti di livello sufficientemente elevato,  permanentemente dedicati a questa funzione con effettivi poteri decisori e di rappresentanza ai quali il consiglio d’amministrazione affiderà obiettivi di budget sulla cui realizzazione dovrà dare conto.

Se l’imprenditore non riesce ad organizzare il governo dell’insediamento estero in questo modo è preferibile – e forse meno costoso – che eserciti l’attività estera mediante una sede secondaria con rappresentanza stabile della società italiana, diretta da un istitore locale dotato di poteri limitati, il che corrisponde, dal punto di vista fiscale, alla istituzione di una stabile organizzazione della società italiana. Sperando che, nel caso in cui la stabile organizzazione sia in perdita, il fisco non ritenga (come è già accaduto) che la soluzione sia stata adottata allo scopo di aggirare le norme sull’indeducibilità delle svalutazioni di partecipazioni.

Ove la legge o gli usi locali richiedano che sia costituita un società (spesso è necessario anche fare entrare soci locali nella compagine sociale) si deve valutare se non sia opportuno dichiarare che la sede dell’amministrazione è in Italia e presentare la dichiarazione dei redditi in Italia, sperando che il fenomeno di “doppia residenza fiscale” possa essere risolto con le convenzioni contro le doppie imposizioni. Non dovrebbero esserci ostacoli nel fruire del credito d’imposta in Italia dato che le imposte all’estero sono pagate dallo stesso soggetto che si è dichiarato residente in Italia.

Ma se il fisco locale non riconoscerà che la società controllata in realtà ha sede fiscale in Italia, sorgeranno certamente problemi al momento della distribuzione dei dividendi, che potrebbero essere assoggettati a ritenuta in entrambi gli Stati.

 

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  • abuso del diritto, Agenzia Entrate, attività all'estero, azioni, C-525/11, Cassazione 7080 2012, Cassazione 32091 2013, CFC, circolare Agenzia Entrate 28/E 2012, commercio internazionale, dividendi, Dpr. 642/72; fiduciarie, evasione fiscale, fiscalità internazionale, fondazioni, holding CFC socio persona fisica, imposta di bollo, imposta patrimoniale, IMU, indicatori anomalie professionisti, intermediari finanziari, IVAFE, iva intracomunitaria, IVIE, Mednis, modulo RW, operazioni sospette, partecipazioni, provvedimento 5 giugno 2012, quadro RW, quote di srl, reati tributari, regolarizzazione, residenza fiscale, riciclaggio, rimborsi Iva, rimpatrio, scudo fiscale, società, società a ristretta base familiare, società controllate estere, sostituto d'imposta, stabile organizzazione, trust, voluntary disclosure
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