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Il Blog di Marco Piazza

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Postilla » Fisco » Il Blog di Marco Piazza » Commercio e fiscalità internazionale » Transfer pricing e abuso del diritto

11 giugno 2018

Transfer pricing e abuso del diritto

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Prevale il diritto degli Stati membri a disciplinare il transfer pricing o la libertà di stabilimento?

Secondo la Corte di Giustizia (C-382/16 del 31 maggio 2018) non viola la libertà di stabilimento una norma nazionale che consenta al fisco di rettificare il reddito di un’impresa residente in relazione a transazioni con imprese  dello stesso gruppo  fatte a condizioni non di mercato, e non lo consenta per le transazioni fra imprese residenti.  Ma la normativa nazionale deve consentire al contribuente residente di provare che le condizioni “fuori mercato” sono state concordate per ragioni commerciali riconducibili alla propria posizione di socio della società non residente. Inoltre, la rettifica deve limitarsi all’eccedenza di reddito, rispetto al dichiarato, che sarebbe stato conseguito se la transazione fosse stata fatta a prezzi di mercato.

Queste sono le conclusioni della Corte di giustizia nella sentenza C‑382/16 del 31 maggio 2018, la quale peraltro, fa ampio riferimento ad un analogo precedente (C‑311/08 del 21  gennaio 2010).

In pratica uno Stato può dotarsi di una legislazione sul transfer pricing internazionale a cui non corrisponda una legislazione sul transfer pricing domestico. Situazione, questa, che si verifica ad esempio in Italia (art. 110, comma 7 del Testo unico e art. 5, comma 2 delD. lgs. 147 del 2015).

Al di là del principio, la motivazione della sentenza segue un percorso che da un certo punto in avanti diventa un poco complicato.

Nella parte iniziale, la Corte conferma che la legislazione di uno Stato membro che discrimina la tassazione delle transazioni infragruppo internazionali rispetto a quelle nazionali è suscettibile di costituire ostacolo alle libertà fondamentali dell’Unione (par. 35). Poi – secondo una giurisprudenza consolidata — afferma che questa restrizione è però giustificata da ragioni imperative di interesse generale; in particolare dalla necessità di assicurare un’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri (par. 43-47).

A questo punto si sarebbe potuto pensare che la Corte avesse esaurientemente risposto al quesito.

Ma la motivazione di questa sentenza – come anche  quella della  sentenza C‑311/08 – non si ferma qui.

In casi come questo,  la Corte deve infatti verificare se la normativa nazionale discriminatoria non ecceda quanto necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito (necessità di assicurare un’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri).

E’ a questo punto che le cose si complicano perchè la Corte di Giustizia riprendendo il precedente del 2010, inserisce il concetto di “costruzione di puro artificio”.

La Corte infatti afferma (par. 49) che una normativa nazionale che si fondi su un esame di elementi oggettivi e verificabili per stabilire se una transazione consista in una costruzione di puro artificio a soli fini fiscali non eccede quanto necessario per raggiungere gli obiettivi relativi alla necessità di salvaguardare la ripartizione  equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri e a quella prevenire l’elusione fiscale quando:

– in primo luogo, in tutti i casi in cui esista il sospetto che una transazione ecceda ciò che le società interessate avrebbero pattuito in un regime di piena concorrenza, il contribuente sia messo in grado, senza eccessivi oneri amministrativi, di produrre elementi relativi alle eventuali ragioni commerciali per le quali tale transazione sia stata conclusa;

– in secondo luogo, la misura fiscale correttrice dei limiti alla frazione eccedente quanto sarebbe stato pattuito a condizioni di mercato.

Gli aspetti poco chiari sono i seguenti:

1) perchè la normativa nazionale secondo cui le transazioni infragruppo con soggetti non residenti siano fatte a condizioni di mercato debba avere lo scopo di stabilire se una transazione consista in una costruzione di puro artificio a soli fini fiscali e di prevenire l’elusione fiscale e non invece il semplice scopo di accertare che la transazione sia fatta alle stese condizioni che sarebbero praticate fra parti indipendenti. Di norma scostamenti fra le condizioni negoziate nella transazione in verifica e quelle di mercato non derivano dall’ideazione di costruzioni  artificiose, ma solo dalla scelta di parametri di confronto diversi da quelli considerati corretti dall’Amministrazione finanziaria e ciò non impedisce che i prezzi di trasferimento vengano rettificati dall’autorità fiscale semplicemente per effetto delle convenzioni contro le doppie imposizioni o in base alla convenzione arbitrale UE, tenuto conto delle Linee Guida OCSE, che non fanno alcun cenno al collegamento fra transfer pricing e costruzione artificiosa;

2)  perchè si debba giustificare con eventuali ragioni commerciali l’esistenza di condizioni non di mercato. Le ragioni commerciali, sono già comprese nelle condizioni della transazione prese in considerazione nell’analisi funzionale per determinare la conformità del prezzo a quello che sarebbe stato praticato fra imprese indipendenti. Sono uno degli elementi che influenzano a priori il prezzo di mercato; non una giustificazione a posteriori dello scostamento. Tenendo conto delle ragioni commerciali della transazione in verifica non vi sarà del tutto uno scostamento rispetto ai prezzi di una transazione confrontabile fra soggetti indipendenti.

Non essendo pensabile che la Corte di Giustizia confonda così grossolanamente la tematica della transfer pricing con quella dell’abuso del diritto (come invece ha fatto la cassazione in varie sentenze, a partire dalla n. 22023 del 2006 e n. 11226 del 2007, poi gradatamente corrette fino alla sentenza 27018 del 2017, par. 10.1),  la pronuncia della Corte deve essere letta più approfonditamente.

Il punto chiave pare trovarsi nel par. 51 in cui:

– viene in un qualche modo dato per scontato che nel caso di specie (la concessione di una garanzia alla controllata senza corrispettivo) – la transazione non sia stata negoziata a prezzi di mercato, diversamente dalla sentenza della Cassazione 27087 del 2014 – confermata dalla n. 15005 del 2015 — che, incredibilmente, afferma che un finanziamento  erogato a titolo gratuito dalla società controllante, esclude “ab origine” (…) qualsiasi incidenza sulla produzione del reddito della società mutuante, e dunque rende privo di oggetto (in difetto della prestazione delle mutuatarie avente ad oggetto il pagamento degli interessi corrispettivi) il criterio di verifica del “valore normale” della prestazione incrementativa del reddito della società controllante”,

– ma si pone l’ulteriore quesito se “il contribuente possa addurre ragioni commerciali a giustificazione del proprio operato costituite da  motivi economici derivanti dall’esistenza stessa di vincoli di interdipendenza tra la società controllante residente nello Stato membro interessato e le sue controllate aventi sede in un altro Stato membro”.

E’ un quesito molto complesso perché si tratta di giustificare una transazione infragruppo fatta a condizioni difformi da quelle che sarebbero praticate fra soggetti indipendenti con il motivo stesso che le parti non sono indipendenti.

In proposito la Corte conclude che potrebbero sussistere ragioni commerciali connesse alla posizione di socio delle società straniere del gruppo  idonee a giustificare la conclusione dell’operazione a condizioni che si discostino dalle condizioni di mercato, dal momento che “il prosieguo o l’espansione delle attività delle suddette società straniere dipendeva, in assenza di sufficienti risorse finanziarie proprie, da un apporto di capitali, la concessione a titolo gratuito di lettere di patronage di contenuto fideiussorio – laddove invece società tra loro indipendenti avrebbero convenuto un corrispettivo per tali garanzie – potrebbe trovare, infatti, spiegazione nell’interesse economico proprio della capogruppo al successo commerciale delle società straniere del gruppo, al quale essa partecipa attraverso la distribuzione degli utili, nonché mediante una certa responsabilità della ricorrente nel procedimento principale, in quanto socia, nel finanziamento di tali società”.

Portando le conclusioni della Corte alle estreme conseguenze, si giungerebbe a concludere che la disciplina del transfer pricing non si applicherebbe alle prestazioni infragruppo  quando siano giustificate da un interesse della capogruppo al successo economico delle società del gruppo, il che appare, tuttavia, estremamente innovativo (sul punto cfr. Assonime, circolare 8 del 2018, pag. 19, in occasione di un importante commento al nuovo articolo 5, comma 4 bis del Dm. 8 giugno 2011).

Probabilmente la Corte non sarebbe giunta alla stessa conclusione se la società finanziata fosse stata residente fuori dall’Unione europea dato che in questo caso non avrebbe avuto la necessità di conciliare le regole del transfer pricing con il principio della libertà di stabilimento.

Certo è che i principi contabili internazionali  a cui, per i finanziamenti infruttiferi corrispondono quelli nazionali, non vanno nella direzione della Corte. In base all’IFRS9, par.  5.5.1 e B.2.5, un contratto di garanzia finanziaria a titolo gratuito dovrebbe essere iscritto inizialmente al fair value con contropartita il costo della partecipazione  nella controllata, per effetto del par. B.5.1.1. Non emergerebbe quindi inizialmente alcun componente di reddito più che altro per il fatto che la gratuità della garanzia sarebbe assimilata ad un apporto di capitale, così come la stessa Corte di giustizia (causa C-287/94) già vent’anni fa aveva considerato apporto di capitale (ai fini dell’imposta di registro) l’interesse non percepito da una controllante che eroghi un finanziamento infruttifero alla controllata. Ma le successive diminuzioni della passività inscritta inizialmente costituiranno componenti positivi di reddito. Quindi, anche se in forma diversa, i principi contabili fanno emergere il tema del transfer pricing, tema che, limitatamente ai finanziamenti infruttiferi alle controllate, viene neutralizzato dall’articolo 5, comma 4-bis del Dm 8 giugno 20111 citato.

Poichè gli operatori non possono mettersi in condizione di subire accertamenti fondati su interpretazioni troppo sofisticate delle norme e della gerarchia fra le stesse, c’è una sola soluzione pratica a cui si può pervenire: evitare in qualsiasi modo prestazioni gratuite o a condizioni non di mercato all’interno del gruppo in modo almeno fino a quando la materia non si sarà stabilizzata.

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