5 novembre 2018
Conferimento di stabile organizzazione italiana in società residente
Spesso è necessario “trasformare” una stabile organizzazione in Italia di società estera in una società italiana controllata dalla stessa società estera o da altri soggetti economici.
Può accadere per motivi organizzativi, in quanto è richiesta una autonomia giuridica – e non solo contabile e amministrativa – della succursale in Italia (a volte anche per imposizioni delle autorità di vigilanza di alcuni settori economici) oppure perché si intende far entrare un nuovo socio nell’iniziativa italiana senza farlo entrate nel capitale della casa madre.
L’operazione avviene mediante la cessione o il conferimento dell’intera azienda (che costituisce la stabile organizzazione in Italia) verso una società residente in Italia esistente o di nuova costituzione.
Mentre il caso della cessione d’azienda non richiede particolari approfondimenti, quello del conferimento ha dato, in passato luogo a molte discussioni.
La neutralità del conferimento infracomunitario
E’ pacifico che se il conferimento riguarda una stabile organizzazione in Italia e viene fatto da una società residente in uno Stato dell’Unione europea ad una società italiana, si applica il regime di sospensione d’imposta di cui agli articoli 178, comma 1, lettera c), e 179, comma 2, del Tuir, di recepimento dell’articolo 2, par. 1, lettera d) e dell’articolo 10 della Direttiva 2009/133/CE del 19 ottobre 2009.
Come infatti osservato dalla risoluzione 63/E del 2018, il conferimento di una stabile organizzazione (ovvero di una sua parte, qualificabile come azienda o ramo d’azienda) è stata oggetto di specifica analisi in sede di modifica della Direttiva 90/434/CEE del 23 luglio 1990 – relativa al regime fiscale comune da applicare alle alle operazioni straordinarie – ad opera della Direttiva 2005/19/CE del 17 febbraio 2005, successivamente trasfusa nella Direttiva 2009/133/CE del 19 ottobre 2009.
In particolare, il considerando n. 14 della Direttiva 2005/19/CE è intervenuto a chiarire che un conferimento d’attivo, quand’anche avvenga “sotto forma” di una stabile organizzazione o di una parte della stessa qualificabile come azienda o ramo d’azienda situata nello stesso Stato membro cui appartiene la società conferitaria, si concreta pur sempre in un trasferimento di attivo da una società di uno Stato membro a una società di un altro Stato membro e perciò stesso coperto dalle disposizioni comunitarie.
Più in dettaglio, il considerando n. 14 affermava “Sussiste qualche dubbio circa l’applicazione della direttiva 90/434/CEE alla trasformazione di filiali in consociate. In queste circostanze, l’attivo collegato a una stabile organizzazione e che costituisce un «ramo di attività», ai sensi dell’articolo 2, lettera i), della direttiva 90/434/CEE, viene trasferito a una società appena costituita, che diventa una consociata della società conferente. Occorrerebbe quindi precisare che la direttiva copre il conferimento d’attivo da una società di uno Stato membro, sotto forma di una stabile organizzazione situata in un altro Stato membro, a una società di quest’ultimo”.
Ma le “modalità” della copertura sono ben regolate dall’articolo 10 della Direttiva, che sancisce:
1) “qualora, fra i beni conferiti all’atto di una fusione, di una scissione, di una scissione parziale o di un conferimento d’attivo, figuri una stabile organizzazione della società conferente, situata in uno Stato membro diverso da quello di tale società, lo Stato membro della società conferente rinuncia a ogni diritto all’imposizione di detta stabile organizzazione” (par. 1);
2) “lo Stato membro della società conferente può tuttavia reintegrare nell’utile imponibile di tale società le perdite anteriori della stabile organizzazione che sono state eventualmente dedotte dall’utile imponibile della società in detto Stato membro e che non sono state compensate” (par. 2);
3) “lo Stato membro in cui si trova la stabile organizzazione e lo Stato membro della società beneficiaria applicano a tale conferimento le norme della presente direttiva come se lo Stato membro in cui è situata la stabile organizzazione fosse lo Stato membro della società conferente” (par. 3).
4) “questa regola vale anche qualora la stabile organizzazione si trovi nello Stato membro in cui è residente la società beneficiaria” (par. 4).
In pratica, lo Stato in cui è situata la stabile organizzazione deve rinunciare ad ogni diritto di imposizione della stabile organizzazione. Non si verifica alcuna perdita di gettito perché le plusvalenze restano allo stato latente nella società conferitaria.
Ciò premesso, la lettera c) del citato articolo 178, comma 1 del Tuir prevede che “ai conferimenti di aziende o di complessi aziendali relativi a singoli rami dell’impresa da uno ad altro dei soggetti indicati nella lettera a), residenti in Stati diversi della Comunità, sempre che uno dei due sia residente nel territorio dello Stato” si applica l’articolo 179, comma 2. L’articolo 179, comma 2, a sua volta, prevede espressamente l’applicabilità del regime della c.d. neutralità fiscale di cui all’articolo 176 del Tuir, limitatamente agli elementi patrimoniali della stabile effettivamente confluiti nella società conferitaria. La risoluzione conferma che la “neutralità” opera anche quando una stabile organizzazione in Italia di società residente nell’Unione europea sia conferita in una società residente in Italia. A sostegno della correttezza di questa interpretazione, osserva che il conferimento della stabile organizzazione in società preesistente italiana “non sottrae materia impositiva allo Stato, il quale potrà continuare ad esercitare il prelievo sui futuri atti realizzativi dei beni, che, ancorché perfezionati da un soggetto diverso, sono pur sempre riconducibili al patrimonio di un soggetto residente”.
Neutralità estesa al caso in cui la società conferente non sia residente nell’Unione europea
Aggiungiamo che le stesse conclusioni – anche se applicando direttamente l’articolo 176 del Testo unico — sono valide nel caso in cui la società conferente non sia residente in uno Stato UE e quindi non trovino applicazione gli articoli 178 e 179 del Testo unico.
Infatti, articolo 176, comma 2 stabilisce che “le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche se il conferente o il conferitario è un soggetto non residente, qualora il conferimento abbia a oggetto aziende situate nel territorio dello Stato”. L’articolo 176, quindi si applica sia se il conferente è residente in Italia sia se il conferente è residente all’estero a prescindere dal fatto che sia residente nell’Unione europea o fuori dall’Unione europea.
In questo senso si veda in dettaglio la circolare Assonime, n. 51 del 2008, pag. 20 e seguenti e la nota n. 954-56166/2008 del 20 maggio 2008 della Direzione Centrale Normativa e Contenzioso.
Il destino delle partecipazioni ricevuto dalla società non residente per effetto del conferimento
Occorre a questo punto tenere in mente che il regime di neutralità fiscale di cui all’articolo 176 del Testo unico è in realtà un regime di “doppia sospensione d’imposta” in quanto la plusvalenza rimane allo stato latente sia per la conferitaria, in relazione alle attività aziendali ricevute, sia per la conferente che ha ricevuto in cambio partecipazione allo stesso costo fiscale dell’azienda conferita.
Il regime di doppia sospensione d’imposta non dovrebbe operare quando il conferimento è regolato dalla Direttiva 2009/133/Ue, perché l’articolo 10 della Direttiva stessa sancisce, come già detto, che lo Stato in cui è situata la stabile organizzazione “deve rinunciare ad ogni diritto di imposizione della stabile organizzazione”. Il che non è irrazionale perché, restando le plusvalenze allo stato latente nella società conferitaria, non si verifica alcuna perdita di gettito nello Stato della stabile organizzazione.
I concetti sopra sinteticamente esposti sono ben chiariti nella proposta della Commissione europea di modifica la direttiva 90/434/CEE contenuta nel documento COM(2003) 613 definitivo del 17 ottobre 2003, poi scaturita nella Direttiva 2005/19/CE del 17 febbraio 2005. Nel punto 26 della proposta si legge: “I conferimenti d’attivo possono comportare una duplice imposizione. La società che trasferisce un ramo di attività riceve in cambio titoli dalla società beneficiaria. La direttiva non prevede norme per la valutazione dei titoli acquisiti in questo modo. Alcune legislazioni nazionali obbligano la società conferente a calcolare le plusvalenze sul successivo trasferimento dei titoli ricevuti in base al valore contabile che l’attivo conferito aveva prima del conferimento. A norma dell’articolo 4, paragrafo 2, inoltre, la società beneficiaria del conferimento deve calcolare i nuovi ammortamenti e le plusvalenze o le perdite inerenti agli elementi d’attivo e di passivo trasferiti in base al valore di prima del trasferimento. In questi casi, lo stesso valore viene usato due volte per scopi fiscali, per cui la stessa plusvalenza derivante dall’attivo trasferito viene attribuita a due contribuenti diversi e tassata due volte. Questa duplice imposizione è quindi ascrivibile allo Stato membro della società conferente, il quale tassa il reddito e le plusvalenze ottenuti dalla stabile organizzazione beneficiaria del conferimento e può tassare anche le plusvalenze ottenute dalla società conferente al momento del successivo trasferimento dei titoli ricevuti in cambio dell’attivo conferito. Questa imposizione non è giustificata da alcun motivo obiettivo. In caso di frode fiscale, tuttavia, l’articolo 11, paragrafo 1 della direttiva consente agli Stati membri di rifiutarne il beneficio. Secondo la giurisprudenza della Corte europea di giustizia (Sentenza del 17 luglio 1997 nella causa C-28/95 Leur-Bloem), a norma dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera a) della direttiva spetta agli Stati membri predisporre le procedure interne necessarie per contrastare la frode fiscale nel rispetto del principio di proporzionalità. Se tuttavia si instaurasse una regola generale che escluda automaticamente determinate categorie di operazioni dal vantaggio fiscale, indipendentemente dall’effettiva esistenza di una frode o di un’evasione fiscale, si prenderebbe una misura superiore a quanto necessario per prevenire tali abusi compromettendo il conseguimento della finalità della direttiva. Gli Stati membri possono quindi decidere che ai titoli ricevuti dalla società conferente venga attribuito il loro valore reale al momento del conferimento d’attivo. I diritti di imposizione dello Stato membro rimangono impregiudicati, poiché sarà ancora possibile tassare il reddito o la plusvalenza derivanti dagli elementi d’attivo collegati con lo stabilimento permanente, che continueranno a far parte della stessa giurisdizione fiscale“.
In pratica, nel caso di conferimento dell’intera stabile organizzazione in una società italiana le cui partecipazioni sia contestualmente assegnate alla casa madre estera anziché ad una sua stabile organizzazione in Italia, non dovrebbe verificarsi alcuna tassazione della plusvalenza in Italia (neppure per l’assegnazione della partecipazione) a meno che non siano riscontrabili i presupposti di eventuali comportamenti abusivi.
Tornando alla legislazione italiana, l’Assonime, nella circolare 51 del 2008 citata, metteva in sostanza in evidenza che:
1) il soggetto non residente, a fronte del conferimento, riceve partecipazioni che si considerano iscritte tra le immobilizzazioni finanziarie con anzianità di possesso pari a quella dei beni conferiti (art. 176, comma 4, del Tuir, richiamato per i conferimenti intracomunitari dall’articolo 179). Ne deriva che, se l’azienda risulta costituita da più di 12 mesi, il soggetto estero può avvalersi del regime di participation exemption in relazione alle partecipazioni ricevute sia nel caso cui in cui, per effetto del conferimento, cessi qualsiasi attività di impresa in Italia, sia laddove, contestualmente al conferimento, ceda le partecipazioni a terzi o le trasferisca all’estero facendole fuoriuscire definitivamente dal regime dei beni di impresa in Italia. Le plusvalenze sulle partecipazioni rivenienti dal conferimento saranno dunque normalmente assoggettate ad imposizione parziale in misura pari al 5 per cento. Peraltro, la tassazione integrale della plusvalenza sulla partecipazione potrebbe comunque verificarsi nel caso di conferimento di una azienda situata in Italia e posseduta da meno di 12 mesi e contestuale cessione della partecipazione ricevuta (o cessazione dell’attività di impresa in Italia), risultando carente il requisito dell’holding period cui è subordinata l’applicazione del regime di participation exemption (cfr.:art. 87 del TUIR e la circolare Assonime n. 38 del 2005). La stessa tassazione integrale potrebbe aversi nel caso in cui la società conferitaria non soddisfi il requisito dell’esercizio di una attività commerciale (come nell’ipotesi, disciplinata dall’art. 87, comma 1, lett. d), in cui il valore del suo patrimonio sia costituito prevalentemente da immobili diversi da quelli strumentali o dai beni-merce).
2) La disciplina interna dei conferimenti intraUE – così come configurata nel nostro sistema e strictu sensu interpretata – non appare del tutto allineata con la Direttiva comunitaria in considerazione del fatto che il regime di participation exemption oggi contempla, in luogo della detassazione integrale, un prelievo sul 5 per cento della plusvalenza realizzata; prelievo che potrebbe risultare in antitesi con il principio di totale detassazione dei disinvestimenti d’impresa effettuati da soggetti UE (si veda sopra).
La nota dell’Agenzia delle entrate del 2008 sopra citata (peraltro riferita ad una stabile organizzazione detenuta da una società americana) tendeva a risolvere il problema fornendo una interpretazione non strettamente letterale della norma interna. In un caso, appunto di conferimento di azienda in società italiana le cui quote venivano attribuite alla casa madre estera, infatti affermava: “L’operazione qui prospettata si configura alla stregua di un conferimento di attivo, in cui una società non residente conferisce la propria stabile organizzazione italiana (attraverso cui svolge la propria attività nel territorio dello Stato) ad una società residente di nuova costituzione. A seguito di detta operazione la società conferente non residente deterrà partecipazioni nella società italiana conferitaria, la quale, a sua volta, eserciterà l’impresa mediante l’azienda ricevuta in conferimento (che prima costituiva la stabile organizzazione della conferente)”. Nessun cenno veniva fatto alla necessità di assoggettare a tassazione la plusvalenza sulle partecipazioni ricevute in conferimento per effetto della chiusura della stabile organizzazione in Italia.
La risoluzione 63/E del 2018, invece, travolge questo ragionamento. Essa fa capire che solo se la partecipazione ricevuta per effetto del conferimento viene assegnata ad una stabile organizzazione in Italia della casa madre estera, si mantiene il regime di sospensione d’imposta della plusvalenza sulla partecipazione. A tal fine la risoluzione precisa che l’assegnazione al patrimonio della stabile organizzazione della partecipazione rinveniente dal conferimento rimane comunque condizionata alla previsione generale della sussistenza di una connessione funzionale tra la suddetta partecipazione e il patrimonio della stabile nel rispetto dell’articolo 152 del Tuir (come modificato dall’articolo 7 del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147).
Qualora la partecipazione ottenuta a fronte del conferimento venga, invece, assegnata alla stabile organizzazione “conferente” e poi trasferita alla sua casa madre ovvero venga assegnata direttamente (all’atto del conferimento) alla casa madre ovvero manchi all’atto del conferimento o venga successivamente a mancare la richiamata connessione funzionale, l’eventuale plusvalenza realizzata da detta stabile “conferente” sarà considerata esente (parzialmente) o, in alternativa, l’eventuale minusvalenza indeducibile, solo nel caso in cui la partecipazione in parola possieda i requisiti indicati dall’articolo 87 del Tuir”.
In pratica viene negata – anche nei conferimenti infraUE, come in quello oggetto dell’interpello – la neutralità integrale dell’operazione in tutti i casi in cui la partecipazione ricevuta in cambio dell’azienda venga assegnata alla casa madre direttamente all’atto del conferimento oppure – nel caso in cui venga mantenuta in Italia una stabile organizzazione a cui la partecipazione sia funzionalmente connessa – venga assegnata in un eventuale momento successivo.
E ciò in evidente contrasto con l’articolo 10 della Direttiva 2009/133/CE che, come detto, sancisce l’obbligo dello Stato in cui si trova la stabile organizzazione di rinunciare ad ogni diritto di imposizione della stabile organizzazione.
Per evitare la tassazione della plusvalenza sulla partecipazione, occorre dunque che sia mantenuta la stabile organizzazione in Italia a cui sia assegnata la partecipazione e che la partecipazione di “funzionalmente connessa” alla stabile organizzazione.
Lo schema di decreto legislativo di recepimento della Direttiva antiabuso (ATAD)
Lo schema di decreto legislativo di recepimento della Direttiva (UE) 2016/1164 risolve, incidentalmente, la questione.
Viene modificato l’articolo 166 del Testo unico, che disciplina l’exit tax, ed è ora chiaro che esso si applica, fra gli altri casi, soggetti che esercitano imprese commerciali:
- sono fiscalmente residenti all’estero, possiedono uno stabile organizzazione situata nei territorio dello Stato e trasferiscono l’intera stabile organizzazione alla sede centrale o ad altra stabile organizzazione situata all’estero;
- sono fiscalmente residenti nel territorio dello Stato e conferiscono una stabile organizzazione o di un ramo di essa situati all’estero a favore di un soggetto fiscalmente residente all’estero.
Viene stabilito, in questi casi, che la plusvalenza, unitariamente determinata, pari alla differenza tra il valore di mercato e il corrispondente costo fiscalmente riconosciuto delle attività e passività facenti parte del patrimonio della stabile organizzazione è imponibile in Italia. Viene infine concessa la possibilità di versare le imposte derivanti da tale plusvalenza in cinque rate annuali.
Ciò che deve essere notato è che i presupposti di imposizione previsti dall’articolo 166 non contemplano il caso in cui la stabile organizzazione sia stata conferita in una società italiana.
L’equivoco sorto per effetto della risoluzione 63/E del 2018 dovrebbe quindi essere definitivamente superato.
La stabile organizzazione holding
Tornando al caso in cui la stabile organizzazione sia mantenuta in vita dopo lo scorporo dell’azienda o ramo d’azienda in una società italiana, resta aperto un ulteriore fronte. Si può considerare che la società estera abbia mantenuto una stabile organizzazione in Italia se la stabile organizzazione svolge una attività di mera holding?
Anche se in un altro campo (stabilire quando una partecipazione debba considerarsi detenuta nell’esercizio d’impresa), prassi e giurisprudenza italiana e comunitaria sono giunti a conclusioni non dissimili da quelle desumibili dal modello OCSE. Il fatto che la mera gestione di una partecipazione azionaria non costituisca esercizio di un’attività economica è, infatti, un principio ormai consolidato sia nelle decisioni della Commissione europea sia nella giurisprudenza della Corte di Giustizia. Lo ha confermato, ad esempio, la decisione della Commissione europea del 22 agosto 2002, C 54/B/2000 (paragrafo 44). La Corte di Giustizia già con la sentenza del 20 giugno 1991, C-60/90, aveva affermato che la semplice acquisizione e il semplice possesso di quote sociali non è da considerare attività economica. La stessa Corte, nella successiva sentenza, 22 giugno 1993, C-333/91, ha stabilito che la semplice assunzione di partecipazioni finanziarie in altre imprese non costituisce “attività economica” in quanto l’eventuale dividendo frutto della partecipazione discende dalla mera proprietà del bene. Conformi, la sentenza 20 giugno 1996, C-155/94 e la sentenza 29 aprile 2004, C- 77/01 (che ha escluso che l’attività di mera vendita di azioni e di altri titoli negoziabili sia un’attività economica). La stessa normativa interna, in materia d’Iva, non considera attività commerciale il possesso, non strumentale né accessorio ad altre attività esercitate, di partecipazioni o quote sociali di obbligazioni o titoli similari, costituenti immobilizzazioni, al fine di percepire dividendi, interessi o altri frutti, senza strutture dirette ad esercitare attività finanziaria, ovvero attività di indirizzo, di coordinamento o altri interventi nella gestione delle società partecipate (art. 4 del D.P.R. n. 633/1972, comma 5, lettera b).
Anche l’Amministrazione finanziaria – con la circolare 53/E del 20 dicembre 2004, par. 2.1.2, riferita ai presupposti di applicazione del consolidato nazionale alle stabili organizzazioni di società estere che detengano partecipazioni in società italiane – precisa come «la nozione di “attività di impresa” (…) (quella contenuta nell’articolo 55 del TUIR), non possa essere riferita alle stabili organizzazioni di soggetti non residenti “la cui attività consiste nella mera detenzione (limitata al godimento dei relativi frutti) di partecipazioni” in società residenti». Il principio è stato ribadito nella risposta del 15 settembre 2005, data dall’onorevole Molgora, in VI Commissione Finanze, all’interrogazione n. 5-03428 dell’onorevole Leo.
Diverso è il caso in cui l’ente non commerciale svolga, professionalmente e con carattere di economicità, un’attività di direzione e coordinamento delle società del gruppo o presti servizi ausiliari o accessori a favore delle controllate.
Ad esempio, dalla sentenza della Corte di Giustizia 14 novembre 2000, C – 142/99 emerge come la holding svolga un’attività economica anche quando attua una forma di “interferenza diretta o indiretta nella gestione” delle imprese partecipate “attraverso il compimento prestazione di servizi amministrativi, finanziari, commerciali e tecnici”. Inoltre, come è noto, la questione se una holding possa essere considerata “imprenditore commerciale” è stata già oggetto di giurisprudenza della Cassazione, anche se nel diverso settore delle procedure concorsuali. Ci si riferisce alla sentenza 26 febbraio 1990, n. 1439 (nota come sentenza Caltagirone), i cui principi sono stati confermati in successive sentenze . La sentenza del 1990, precisa che «la holding si distingue dalla pura e semplice gestione patrimoniale del portafoglio azionario, in quanto essa non si limita all’esercizio dei poteri e dei diritti che dalle azioni conseguono, ma, a mezzo di detti poteri, esercita l’attività caratterizzante di direzione e di governo, eventualmente anche finanziario».
La Cassazione ha ribadito che l’attività di direzione e coordinamento si realizza quando un soggetto, non limitandosi al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio, effettua una ingerenza qualificata nella gestione della controllata, espressione di una posizione di potere tale da incidere nelle scelte di gestione e operative degli organi amministrativi delle controllate.
Lo stesso orientamento è presente nella giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza 10 gennaio 2006, C-222/2004), in cui si afferma che «il semplice possesso di partecipazioni, anche di controllo, non è sufficiente a configurare un’attività economica del soggetto che detiene tali partecipazioni, quando tale possesso dà luogo soltanto all’esercizio dei diritti connessi alla qualità di azionista o socio nonché, eventualmente, alla percezione dei dividendi, semplici frutti della proprietà di un bene. Viceversa, un soggetto che, titolare di partecipazioni di controllo in una società, eserciti effettivamente tale controllo partecipando direttamente o indirettamente alla gestione di essa, deve essere considerato partecipe dell’attività economica svolta dall’impresa controllata». Questa giurisprudenza è citata anche dalla circolare 32/E dell’8 luglio 2011 anche se con riferimento ai criteri per stabilire quando una holding sia o meno una “costruzione puramente artificiosa” .
Se la partecipazione è “funzionalmente connessa” alla stabile organizzazione, non sarà possibile, all’atto dell’alienazione della partecipazione stessa, invocare le convenzioni per evitare le doppie imposizioni che prevedano l’intassabilità in Italia delle plusvalenze derivanti dalla cessione di beni mobili non facenti parte della proprietà aziendale delle stabili organizzazioni esistenti in Italia. L’unica forma di esenzione spettante sarà la participation exemption, alle condizioni di cui all’articolo 87 del Testo unico.
I dividendi di partecipazioni “relative” a stabili organizzazioni.
Altri tema delicato riguarda la tassazione dei dividendi della società italiana. L’articolo 27, comma 3 del Dpr 600/73 è esplicito nel dichiarare che la ritenuta sugli utili corrisposti a soggetti non residenti non viene operata in relazione a partecipazioni, titoli similari o contratti di associazione in partecipazione che siano “relativi” a stabili organizzazioni”.
In questo caso, per effetto degli art. 152 e 153 del Testo unico, il dividendo concorre a formare il reddito d’impresa imponibile della stabile organizzazione, nella misura eventualmente ridotta di cui all’articolo 89 del Testo unico.
Invece i dividendi non “relativi” alla stabile organizzazione sono soggetti alla ritenuta di cui all’articolo 27 o all’imposta sostitutiva dell’articolo 27-ter del Dpr. 600/73 nella misura – a secondo dei casi – dell’1,20%, del 26% o di quella prevista dai trattati, se non si applica la totale esenzione prevista dall’articolo 27 bis del Dpr. 600/73 (regime madri e figlie).
Per completezza si ricorda che ove la convenzione preveda una “riserva della stabile organizzazione assoluta” (come nei casi dei trattati con Svizzera e Irlanda) – che impedisce l’applicazione della ritenuta ridotta per il semplice fatto di possedere una stabile organizzazione nello Stato di residenza della società che eroga il dividendo – questo resta assoggettato alla ritenuta italiana di cui all’articolo 27, commi 3 e 3 ter del Dpr. 600/73, a meno che, appunto, il dividendo sia “relativo alla stabile organizzazione”.
Mancano indicazioni ulteriori per decidere quando la partecipazione possa essere considerata «relativa» alla stabile organizzazione: in particolare se debba sussistere una connessione in chiave economico funzionale o se, con un’applicazione analogica dell’art. 65, comma 1 del Testo unico, si debba fare riferimento all’iscrizione della partecipazione nella contabilità della stabile organizzazione.
La circolare ministeriale 165/E del 1998 si limita ad affermare che la ritenuta non trova applicazione sui dividendi relativi a partecipazioni possedute da stabili organizzazioni nel territorio dello Stato di soggetti non residenti facendo, quindi, ritenere che prevalga la circostanza che l’investimento sia stato effettuato attraverso i fondi della stabile organizzazione e con l’intervento dei rappresentanti legali della stabile organizzazione, piuttosto che quella che esista un particolare legame funzionale della partecipazione rispetto all’attività della stabile organizzazione.
Se così fosse, tuttavia, vi sarebbe un significativo scollamento fra il concetto di «partecipazione relativa alla stabile organizzazione», di cui all’art. 27 del D.P.R. 600/73, e quello di «partecipazione effettivamente connessa alla stabile organizzazione» presente nei trattati per evitare le doppie imposizioni. La questione assume rilevanza perché, come si è detto, le convenzioni di norma stabiliscono che i dividendi derivanti da partecipazioni «effettivamente connesse» a stabili organizzazioni esistenti nello Stato della fonte non possono beneficiare della tassazione ridotta prevista dal trattato e devono essere tassati secondo la legislazione interna dello Stato dal quale i dividendi provengono (cosiddetta “riserva della stabile organizzazione”). Il Commentario OCSE all’art. 10 del modello di convenzione precisa, al par. 31, che questa disposizione si applica ai dividendi derivanti da partecipazioni «che formano parte dell’attività della stabile organizzazione o altrimenti sono ad essa effettivamente connesse».
Il paragrafo 32 enfatizza che una sede d’affari può costituire stabile organizzazione sono se vi si conduce un’attività imprenditoriale (un “business”) ed, inoltre, che la condizione che la partecipazione sia effettivamente connessa con la stabile organizzazione richiede qualcosa in più della mera registrazione della partecipazione stessa nei libri della stabile organizzazione. Il paragrafo 32.1 precisa che la detenzione della partecipazione in relazione alla quale sono pagati i dividendi si considera effettivamente connessa con una stabile organizzazione e quindi, costituisce parte delle sue attività imprenditoriali (“business assets”) se la stabile organizzazione detiene la “proprietà economica” (“economic ownership”) della partecipazione, secondo i criteri illustrati nel Rapporto Attribution of Profits to Permanent Establishments del 2010. In tale contesto, la stabile organizzazione può considerarsi detenere la “proprietà economica” della partecipazione se assume gli stessi benefici (diritto a percepire i dividendi) e rischi (esposizione ai guadagni o alle perdite derivanti dalle variazioni di valore della partecipazione) che in una simile condizione avrebbe assunto una società indipendente . Il par. 32.1 richiama in particolare i par. da 72 a 97 della Parte I del Rapporto del 2010, ma questi rinviano ai precedenti par. 18 – 20, nei quali da un lato viene precisato che non è possibile lasciare al contribuente la facoltà di allocare a propria discrezione le attività di proprietà dell’azienda ad una stabile organizzazione piuttosto che ad un’altra, dall’altro che i criterio maggiormente condivisibile sia quello basato su un’analisi funzionale, attraverso cui, come vedremo nel par. 4, sia possibile attribuire alla stabile organizzazione i rischi e le attività la cui assunzione e gestione è affidata a persone che operano nella stabile organizzazione stessa .
Ciò premesso, non pare razionale che esista uno scollamento fra il concetto di “partecipazione relativa alla stabile organizzazione” e “partecipazione effettivamente connessa alla stabile organizzazione”; se così fosse vi sarebbero rischi di salti d’imposta e doppie imposizioni certamente non voluti dal legislatore nazione, né dall’OCSE.
L’attuale impostazione degli articoli 151 e 152 del Testo unico consentono, peraltro, di evitare l’inconveniente portando a ritenere che il concetto di “partecipazione relativa” non possa che coincidere con quello di “partecipazione effettivamente connessa”, per i seguenti motivi:
1) dai paragrafi 31 e seguenti del Commentario OCSE all’articolo 10 emerge il chiaro intento di utilizzare, anche ai fini dell’applicazione dell’articolo 10, par. 4, i criteri posti a base dell’articolo 7 (“Utili delle imprese”) per definire il concetto di “attività effettivamente connessa”. Regole più propriamente definite per determinare i redditi d’impresa della stabile organizzazione secondo il “separate entity approach” vengono quindi utilizzate anche allo scopo di “localizzare” le attività suscettibili di produrre i redditi;
2) le regole contenute nel Commentario all’articolo 7 del modello OCSE e nel Rapporto Attribution of Profits to Permanent Establishments del 2010 trovano ingresso anche nel nostro ordinamento in quanto espressamente richiamate dall’articolo 152, commi 2 e 3 del Testo unico, anche a prescindere dalla circostanza che con l’altro Stato sia in vigore una convenzione conforme al modello OCSE;
3) è quindi legittima una interpretazione meno formale e più sostanziale del concetto di “partecipazione relativa alla stabile organizzazione”, nel senso indicato dall’OCSE.